Nel limbo di Idomeni

Cresce la tensione al confine tra Grecia e Macedonia dove le forze di polizia lasciano passare solo siriani, afghani e iracheni. Gli altri? Bloccati a Idomeni, tra scontri, proteste ed incredulità

di Angela Caporale

IdomeniAnche noi siamo persone. Perché non ci fanno passare?” chiede Vakasamir, pakistano, a Idomeni, niente più di un villaggio ma ultimo avamposto greco verso la Macedonia. Luogo di transito, di passaggi, di transizioni, nelle ultime settimane è diventata la nuova frontiera della fortezza Europa.

Nei giorni dopo gli attentati di Parigi dello scorso 13 novembre, l’Europa, atrofizzata tra paura e diffidenza, si è chiusa ancora di più nella sua rocca intoccabile; e a farne le spese sono stati ancora una volta migranti e richiedenti asilo che, incessantemente, bussano alla sua porta. A Idomeni siamo di fronte ad una forma di discriminazione su base etnica, pura e semplice. Quello stesso tipo di discriminazione da cui l’UE e il Consiglio d’Europa dovrebbero proteggere, almeno secondo quanto previsto dall’articolo 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Di fronte al terror terroris? Tutto in fumo.

Da quel momento il confine viene chiuso arbitrariamente e migliaia di persone sono costrette a dormire all’aperto, dove l’UNHCR e Medici Senza Frontiere hanno allestito una tendopoli pronta ad accogliere un migliaio di persone. Peccato che, si stima, solo la notte del 17 novembre ci fossero 5.500 persone al confine greco-macedone. Il giorno successivo è cominciata la conta: Siriani, Iracheni, Afgani possono passare, Pakistani, Iraniani, Marocchini, Camerunesi, Ivoriani no.

Alcuni protestano mostrando i documenti di registrazione firmati dalle autorità greche una volta arrivati sulle isole, altri tentano la sorte provando ad attraversare il confine nei campi attorno ad Idomeni. Altri ancora hanno organizzato piccole manifestazioni di protesta con cartelli, in inglese, in cui chiedono semplicemente la libertà di passare. Un gruppo di ragazzi Iraniani si è cucito le labbra in segno di protesta. Sono giorni di tensione, in cui anche i tanti movimenti di solidarietà e volontariato che, ormai da più di un anno, offrono supporto (e conforto) ai migranti di passaggio, non hanno molto da offrire.

La situazione si è fatta ancor più tesa il 3 dicembre. Dopo due settimane di chiusura della frontiera, 3.000 migranti sono ancora bloccati al confine. L’incredulità la fa da padrona: “Se il confine è chiuso, dovrebbe essere chiuso per tutti. Se è aperto, dovrebbe essere aperto per tutti”. Invece continuano a passare solo Siriani, Iracheni e Afghani.

Secondo alcuni operatori delle ONG attive sul campo, un migliaio di migranti ha provato ad attraversare il confine mercoledì notte passando dai campi dove non è ancora stato posto il filo spinato. La polizia macedone ha reagito sparando gas lacrimogeni, un ventenne marocchino ha provato a saltare ugualmente le recinzioni elettrificate poste al confine. Non c’è l’ha fatta, di fronte allo sguardo attonito della polizia greca che, invece, è riuscita a conquistarsi la fiducia di migranti, associazioni e popolazione della piccola Idomeni.

Paradossale è osservare come Idomeni abbia mutato completamente fisionomia diventando un luogo di transito nell’ultimo anno e mezzo. Ancor più paradossale è osservare come a lungo l’assistenza e il supporto ai migranti di passaggio siano stati gestiti da movimenti volontari, gruppi di persone che si sono indignate di fronte all’assenza di ogni tipo di presenza riconosciuta. Tutto è nato dalla raccolta di medicine e di cibo, spesso richiedenti asilo e migranti erano costretti a bere nei fiumi, ammalandosi.

Oggi neanche i volontari hanno molto da offrire, nemmeno qualche informazione per rassicurare queste persone che, dopo aver affrontato non poche difficoltà, si trovano bloccate proprio sulla rotta che dovrebbe essere più sicura. Non si sa quello che succederà, di sicuro migliaia di persone – cui viene negato un diritto a causa della loro provenienza – non possono tornare indietro, ma finché le autorità macedoni ignoreranno gli appelli, la tensione di certo non smetterà di crescere ed è imprevedibile quale ne sarà l’esito. Quello che è certo è che, ancora una volta, sono i valori e i diritti umani ad essere calpestati in nome della sicurezza, chissà poi di chi.

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