Idee, progetti e i (vostri) soldi. Così il crowdfunding rilancia l’arte

Parla Jessica Tanghetti, cofondatrice di BeArt: “Donazioni, ricompense e investimenti. Ecco come si produce cultura nel terzo millennio”

di Federica Salzano
su Twitter @FedericaSalzano

©Cecilija Berg, fonte immagine: beartonline.com

Il mercato culturale è stato indebolito dai tagli dei finanziamenti pubblici. Non solo in Italia, ma in tutta Europa. Ed è qui che entriamo in gioco noi di BeArt”. Jessica Tanghetti vive a Londra da alcuni anni e dal Regno Unito ha lanciato – con Mauro Mattei e Giorgio Bartoli – la più promettente piattaforma di crowdfunding dedicata al mondo dell’arte contemporanea. BeArt mette in contatto artisti, professionisti e istituzioni con i potenziali finanziatori. “Si possono effettuare sia donazioni semplici che ottenere ricompense al fronte della propria offerta” spiega. Per poi svelare la prossima novità: “Vogliamo trasformare i finanziatori in comproprietari dell’opera prodotta, in modo che possano beneficiare di eventuali plusvalenze. Così attrarremo anche un tipo di pubblico finora escluso”.

Dottoressa Tanghetti, perché nasce Beart?
Per compensare, in parte, la mancanza di risorse pubbliche destinate al mercato culturale. I numeri sono ancora limitati: si tratta di un’iniziativa giovane che dialoga con un settore – l’arte contemporanea – ristretto ed elitario, restio ad aprirsi a un modello di finanziamento “di massa”. Siamo però riusciti a dimostrare nel tempo come il crowdfunding rappresenti uno strumento di grande efficacia.

Quanto conta saper coniugare universi in apparenza lontani come l’economia e l’arte?
Io e i miei soci proveniamo da settori professionali eterogenei quali economia, business e comunicazione. BeArt è il risultato dell’incontro di queste competenze con una comune passione per l’arte. Oggi sono sempre di più le professionalità ibride – come la mia – che instaurano un dialogo tra “numeri” e “contenuti”.

da sx a dx: Jessica Tanghetti, Mauro Mattei, Giorgio Bartoli

E qual è stato il risultato di questa sinergia?
Finora abbiamo ospitato circa 35 progetti, orientativamente un terzo delle proposte che abbiamo ricevuto. La selezione è legata alla volontà di restare fedeli ai valori e alla mission della piattaforma, coerenti con l’arte contemporanea.

Qual è la percentuale di successo dei progetti?
È presto per parlare di statistiche, ma siamo in linea con le piattaforme generaliste e ci attestiamo intorno al 35%. Dipende anche dai diversi meccanismi di crowdfunding.

In che senso?
Se parliamo del modello All or Nothing, per cui si ottengono i fondi solo se si raccoglie il 100% della cifra richiesta, il successo è dato dal raggiungimento di quella soglia. Su BeArt, però, è più utilizzato il sistema Keep it All, per cui il promotore trattiene la somma anche se questa non copre interamente la richiesta. A seconda di quanto ricevuto, è possibile realizzare lo stesso alcune parti del progetto o si può cercare uno sponsor per il restante importo.

Come si attraggono i potenziali finanziatori?
Oltre alle donazioni semplici esistono sistemi come quello delle ricompense. E credo che sia proprio questo uno degli aspetti cruciali nell’efficacia del crowdfunding. Nel caso dell’arte contemporanea il meccanismo funziona ancora meglio. Le ricompense possono essere opere prodotte in via esclusiva per la campagna o in edizioni limitate. Ma possono prendere anche la forma di vere e proprie esperienze con l’artista: cene, studio visits o visite private alle mostre. Questi format funzionano molto bene perché pensati per un pubblico, quello degli appassionati d’arte, che ha caratteristiche peculiari rispetto a quello generalista. Per il futuro, inoltre, stiamo ragionando sull’equity crowdfunding.

Di cosa si tratta?
Consiste nel rendere i donatori comproprietari del bene che hanno finanziato. Nel caso di vendita, questi potrebbero beneficiare delle eventuali plusvalenze. Il supporto al progetto diventa così un investimento che potrebbe convogliare sulla piattaforma anche una tipologia diversa di audience.

“Goooonies” ©Patrick Tuttofuoco, fonte immagine: beartonline.com

Non solo mecenatismo, dunque.
Da un lato c’è chi vuole sostenere un progetto a prescindere dalla ricompensa: una sorta di mecenatismo 2.0. Dall’altro gli utenti che si rivolgono al sito per acquistare una specifica opera d’arte. In questo caso si opera maggiormente come in un sistema di e-commerce.

BeArt si divide tra l’Inghilterra – ha sede a Londra – e l’Italia. Che differenza c’è tra i due mercati?
Londra offre molte agevolazioni nel campo delle startup e permette di velocizzare i tempi di realizzazione della propria iniziativa. L’Inghilterra poi è il mercato principale per il crowdfunding, dopo gli Usa. In Italia il fenomeno è ancora limitato ma sta registrando un’importante accelerazione.

Crede che la Brexit possa influire in qualche modo sull’attività di BeArt?
Brexit ad oggi è una grandissima incognita. Dal punto di vista della nostra attività dubito però che possano esserci effetti dirompenti. Siamo una piattaforma internazionale con una grande apertura ad altri mercati. In questo momento stiamo valutando le possibilità di sviluppo a Berlino e Lisbona. D’altronde BeArt, funzionando online, è un modello facilmente implementabile.

fonte immagine:beartonline.com

Tra i progetti sostenuti, ce n’è uno a cui è particolarmente affezionata?
Ce ne sono due. Sono rimasta commossa da Artists for Ian, un’iniziativa con la quale abbiamo raccolto oltre 90.000 euro. Tanti artisti hanno donato le proprie opere per supportare l’intervento chirurgico e le cure mediche del pittore Ian Tweedy. Il secondo progetto è Goooonies di Patrick Tuttofuoco, presentata alla XVI Quadriennale di Roma. È stata una vera soddisfazione vedere il suo lavoro in mostra.

C’è un artista che le piacerebbe sostenere?
Il mio sogno in realtà è finanziare un Degree show (lavoro finale dei laureandi, ndr) per un’importante accademia d’arte. BeArt darebbe così la possibilità agli studenti di avere visibilità e accedere ai fondi per il proprio progetto di studio. Al momento è online quello di una studentessa del Wimbledon College of Arts e mi auguro che diventi un’iniziativa sempre più frequente.

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